Accade di frequente che le pubbliche Amministrazioni non intervengano in tempo per procedere al rilascio di provvedimenti autorizzativi per consentire la prosecuzione dell’occupazione del demanio marittimo con opere che per la loro struttura (muraria e, comunque, non movibile) insistono sul territorio.
È il caso dei lidi balneari insediati in passato con strutture tutt’altro che movibili e regolarmente autorizzate che, nel tempo, non hanno visto rinnovata l’autorizzazione comunale ad occupare il demanio e, di conseguenza, sono state sottoposte a sequestro preventivo ed i proprietari a processo penale per la violazione dell’art. 633 e 639 bis c.p..
Sul solco della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, anche il Tribunale di Lecce ha delineato il contorno degli elementi costitutivi necessari per la realizzazione del reato suddetto, escludendo la responsabilità del titolare del lido balneare che si trovava ad occupare il demanio marittimo con titolo scaduto, ma con la chiara consapevolezza della pubblica Amministrazione.
Orbene, il citato art. 633 c. p. dispone che: “Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro. Le pene si applicano congiuntamente, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi”.
La disposizione in esame è atta a tutelare l’inviolabilità e l’integrità della proprietà immobiliare, specificatamente intesa come diritto d’uso e godimento di tali beni.
Ebbene, l’art. 633 c.p., rientrante nei delitti contro il patrimonio, disciplina una delle più rilevanti fattispecie penali che possono essere integrate in relazione ai beni pubblici.
Si tratta di un reato comune, che dunque può essere commesso anche dal proprietario nei confronti del conduttore o altro soggetto che abbia il possesso dell’immobile, in quanto tale fattispecie richiede che l’agente non abbia il possesso o la disponibilità del bene.
Ma in quali circostanze, realmente, si può ritenere configurato il reato di invasione di terreni o edifici, ex art. 633 c.p.?
La condotta di “invasione”, di cui all’art. 633 c.p., si realizza nel momento in cui il soggetto si introduce nell’edificio o sul fondo altrui, col fine di “occuparli” o di “trarne altrimenti profitto”, adottando una condotta idonea a turbare il pacifico godimento del bene da parte del titolare.
La norma prevede, inoltre, una nota d’illiceità speciale, ovvero un elemento oggettivo, richiedendo che l’invasione sia posta in essere arbitrariamente, nota che risulta implicita nello stesso termine usato per descrivere l’azione, indicando il termine “invade” una condotta, già di per sé, realizzata contro la volontà del possessore o clandestinamente.
L’invasione, quindi – perché si possa configurare il reato di cui all’art. 633 c.p. – seppur priva del carattere della violenza, deve essere connotata dal carattere dell’illegittimità, dovendo essere diretta ad occupare il bene – oggetto materiale della condotta – o ad ottenere altra utilità al di fuori di qualsiasi titolo in tal senso legittimante.
Interessante è la posizione assunta sul tema dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale, ritornando in più occasioni nel merito della questione[1], ha da tempo affermato il principio stante il quale rientra nella previsione della fattispecie incriminatrice, di cui all’art. 633 c.p., solo il fatto positivo di effettuare l’occupazione del bene e non, invece, quello di continuare un’occupazione legittimamente effettuata, avendo avuto in principio anche il favor del proprietario del bene; ciò perché la condotta punibile ex art 633 c.p. consiste nel fatto positivo dell’introduzione arbitraria dall’esterno, nel terreno o edificio altrui, non rilevando, al contrario, il mero fatto dell’occupazione non preceduta da attività di invasione, quand’anche vi sia la permanenza nel fondo o nell’edificio altrui.
Esemplificativo è il caso in cui il soggetto sia nel possesso del bene in virtù di un’autorizzazione delle autorità competenti o del legittimo proprietario, che però risulta scaduta e che non si è provveduto a rinnovare.
Stando alla tesi sposata dalla giurisprudenza di legittimità tale condotta non integra la fattispecie di cui all’art. 633 c.p., poiché mancherebbe la condotta d’invasione, elemento discriminante per la configurazione della fattispecie criminosa o meno.
Orbene, la norma in esame tutela una situazione di fatto tra il soggetto e la cosa, sicché si deve escludere la sussistenza del reato tutte le volte che il soggetto sia già in possesso del bene, per cui non si realizza una modificazione della precedente situazione di fatto[2].
A tale riguardo, rileva una recentissima sentenza del Tribunale di Lecce, nella quale l’imputata – accusata, ex art. 633 c.p., di aver occupato arbitrariamente un’area appartenente al demanio marittimo col fine di svolgervi la propria attività di lido balneare e locale adibito alla ristorazione – è stata assolta con la formula liberatoria de “il fatto non costituisce reato”, in quanto assente nella condotta della stessa, l’elemento oggettivo della fattispecie criminosa, ovvero l’elemento dell’arbitrarietà dell’invasione, essendo questa, legittimamente, subentrata ai precedenti titolari nella concessione demaniale, seppur scaduta ai tempi delle indagini.
Per di più, sintomatico della non arbitrarietà dell’occupazione era la non opposizione del proprietario del bene all’utilizzo dello stesso, godendo, l’imputata, del consenso degli Enti pubblici interessati all’utilizzo del suolo demaniale di loro competenza[3].
Appare, dunque, potersi affermare la necessità dell’arbitrarietà dell’invasione perché si configuri il reato invasione di terreni o edifici, di cui all’art. 633 c.p., e che questa avvenga in assenza di autorizzazione o di consenso da parte del soggetto titolare del potere di godimento[4].
Dott.ssa Laura Avantaggiato
Avv. Michele Bonsegna
[1] v. Cass. Pen., sez.II 06/07/2007; Cass. Pen., sez. II 17/06/2010, n. 25937.
[2] Cass. Pen., sez. II n. 51754 del 2013; Cass. Pen., sez. II, n.40571 del 2013; Cass. Pen., sez. II n.5585 del 2012.
[3] Trib. Lecce, I sez. pen., n. 1882/2016 del 05.07.2016
[4] Cass. Pen, sez. II, sent. n. 2337 del 01.12.2005