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La disciplina della prescrizione contenuta nel d. lgs 231/2001 si discosta da quella penalistica di cui agli artt. 157 e ss. c.p., essendo modellata sul tipo di prescrizione dettata in ambito civilistico dagli artt. 2943 e ss. C.c. e di quella prevista in materia di sanzioni amministrative dall’art. 28 della l. 24 novembre 1981, n. 689.
L’art. 22 del d. lgs. 231/2001, infatti, prevede che le sanzioni amministrative (rectius: gli illeciti amministrativi) si prescrivono nel termine di cinque anni. La richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo ai sensi dell’art. 59 interrompono la prescrizione ed inizia un nuovo periodo di prescrizione.
La formulazione della norma ha dato luogo ad ampi dibattiti, in particolare quanto all’identificazione del momento a partire dal quale è interrotto il termine di prescrizione, aspetto tutt’altro che marginale, posto che, contrariamente a quanto accade nel rito penale, la contestazione dell’illecito amministrativo determina la sospensione della prescrizione sino al passaggio in giudicato della sentenza, come stabilisce l’art. 22 co 4.
Sul tema, è opportuno segnalare una recente sentenza del Tribunale di Brescia nr 692/2015, contenente una riflessione sulla natura della contestazione dell’illecito amministrativo all’ente: nell’ambito di un processo a carico di una Società citata in giudizio per rispondere, ai sensi dell’art. 25 septies co 3 del d. lgs. 231/2001, delle lesioni riportate da un lavoratore in esito ad un infortunio, era accaduto che il P.M. aveva depositato la contestazione dell’illecito poche settimane prima dello spirare del termine prescrizionale, mentre la notifica dell’atto era intervenuta in una data successiva.
Il Tribunale , chiamato a decidere se la citazione dell’ente avesse o meno prodotto l’interruzione del termine della prescrizione, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha statuito: “la disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001 e, in specie, negli artt. 22 e 59, ispirandosi a principi di natura civilistica, richiede, ai fini interruttivi della prescrizione, non già la semplice emissione del decreto di citazione diretta a giudizio, ma la sua regolare notificazione all’ente”.
Ed infatti:
- A deporre in favore della natura recettizia della contusione operata ai sensi dell’art. 59 del d. lgs. sarebbe, innanzitutto, la stessa lettera della legge: “l’utilizzo del verbo “contesta” contenuto nell’art. 59”- e la relativa ”contestazione dell’illecito amministrativo” richiesta dall’art. 22 per far scattare l’interruzione della prescrizione- “rimanda necessariamente all’emissione dell’atto, in cui contenuto deve essere portato a conoscenza del destinatario”.
Tale attività, al contrario, non è prevista dall’art. 160 c.p.p.
- L’art. 22 mutua il regime della prescrizione dalla regolamentazione civilistica, introducendo un sistema di cause interruttive della prescrizione in termini del tutto equivalenti a quelli sanciti dall’art. 2945 c.c. nel disciplinare comunemente un regime sospensivo della prescrizione destinato a protrarsi fino al passaggio in giudicato della sentenza.
Da tale parallelismo si ricava pertanto che la contestazione dell’illecito all’ente è atto di natura recettizia, per la cui efficacia è imprescindibile l’effettiva conoscenza del destinatario.
Le conclusioni della Corte bresciana si allineano alla recente tesi della Corte di Cassazione, avendo Ella espressamente statuito che: “In tema di responsabilità da reato degli enti, la richiesta di rinvio a giudizio della persona giuridica interrompe il corso della prescrizione, in quanto atto di contestazione dell’illecito, solo se, oltre che emessa, sia stata anche notificata entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, dovendo trovare applicazione, ai sensi dell’art. 11, primo comma, lett. r), L. 29 settembre 2000, n. 300, le norme del cod. civ. che regolano l’operatività dell’interruzione della prescrizione” (Cass. pen. Sez. VI, 12-02-2015, n. 18257).
Concludendo: in materia di atti interruttivi della prescrizione degli illeciti amministrativi dell’Ente, non si ha riguardo all’art. 160 c.p., ma trova applicazione il regime di prescrizione di cui all’art. 2945 c.c., essendo idonei ad interrompere la prescrizione non tutti gli atti, ma solo quelli che siano stati notificati alla controparte. Infatti, mentre gli atti di cui all’art. 160 c.p. interrompono la prescrizione con la sola loro emissione, quelli emessi nell’ambito di un procedimento per responsabilità amministrativa dell’Ente producono tale effetto solo dopo che siano stati notificati. Occorre, cioè, che siano atti recettizi.
Dott.ssa Giulia Ripa
Avv. Michele Bonsegna
Come noto, la Legge Anticorruzione n. 190 del novembre 2012 – che ha introdotto Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” – dispone, nell’ottica di contrastare fenomeni corruttivi in seno alla Pubblica Amministrazione, l’istituzione di un organo di controllo interno a ciascuna P.A., deputato alla predisposizione dei piani triennali anticorruzione (piani rivolti a ridurre il rischio di fenomeni corruttivi della singola PA, nel quadro più generale del Piano Nazionale Anticorruzione): il responsabile per la prevenzione della corruzione.
Quest’ultimo, di regola, è un dirigente amministrativo di ruolo di prima fascia in servizio e, negli enti locali, “è individuato, di norma, nel segretario, salva diversa e motivata determinazione” (art. 1, comma 7, l. n. 190/2012).
L’art. 1 del d. lgs. 22 gennaio 2013, n. 39, di attuazione della l. n. 190/2012, poi, estende l’obbligo di nomina di un responsabile per la prevenzione della corruzione anche agli enti di diritto privato soggetti a controllo da parte dell’ente locale.
La normativa nazionale di cui al Piano Nazionale Anticorruzione, dunque, ha richiesto la introduzione della figura del Responsabile per la prevenzione della corruzione, organo deputato a vigilare sul rispetto del piano anticorruzione interno a ciascuna P.A., anche per quegli enti che, pur formalmente privati, sono in diretto controllo pubblico, quali le società partecipate e controllate.
L’obiettivo perseguito dal legislatore nel riformare la normativa sulla corruzione e nell’introdurre figure quali l’ANAC ed i responsabili anticorruzione locali è quello di garantire la maggiore trasparenza possibile e di limitare al massimo le commistioni “sospette” tra pubblico e privato (privato in cui rientrano anche le società controllate o partecipate da Enti Locali).
Sulla scorta di tale obiettivo si deve collocare, pertanto, anche la legislazione che restringe la possibilità di assumere cariche elettive per coloro che rivestono determinate posizioni all’interno di una società controllata.
Le norme cui si fa riferimento sono, in particolare:
- l’art. 13, comma 3, del d. lgs. n. 39/1013, secondo il quale: “Gli incarichi di presidente e amministratore delegato di ente di diritto privato in controllo pubblico di livello locale sono incompatibili con l’assunzione, nel corso dell’incarico, della carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia o di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione”;
- L’art. 60, comma 1, n. 10) del Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico degli enti locali) prevede l’ineleggibilità a consigliere comunale per: “i legali rappresentanti ed i dirigenti delle società per azioni con capitale superiore al 50 per cento rispettivamente del comune [o della provincia]”;
- L’art. 63, comma 1, n. 1 del Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 prevede l’incompatibilità con la carica di consigliere comunale per “l’amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno il 20 per cento di partecipazione rispettivamente da parte del comune [o della provincia] o che dagli stessi riceva, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle entrate dell’ente”.
Occorre evidenziare che le due norme citate sono considerate insuscettibili di applicazione analogica dalla giurisprudenza di legittimità e da quella costituzionale (si rimanda, tra le più recenti decisioni sul tema, a Corte Cost. 120/2013), sul presupposto che, nel nostro ordinamento, il diritto di elettorato passivo è la regola, mentre la sua limitazione costituisce un’eccezione. Perché possa aversi una restrizione di tali diritti, dunque, è necessaria una previsione espressa del legislatore.
Nulla afferma la normativa sopra illustrata su un’eventuale incandidabilità del responsabile per la prevenzione della corruzione di una società a controllo pubblico rispetto alla carica di consigliere del comune che controlla la società!
Alla luce della stessa, dunque, risulta che per il responsabile per la prevenzione della corruzione di una società partecipata dal comune non sussista ineleggibilità alla carica di consigliere comunale, poiché questa condizione ostativa è legata alla sola posizione di vertice all’interno dell’amministrazione (intesa come attività amministrativa in senso stretto, come governance, svincolata dall’attività di voice e da quella di controllo).
Si deve ritenere, altresì, che non sussiste incompatibilità tra le cariche di cui trattasi, per i medesimi motivi succitati: il conflitto di interesse che il legislatore mira ad eliminare, attraverso le norme del Tuel e della Legge Severino, è quello tra componente dell’organo di indirizzo politico del comune e manager della società a partecipazione pubblica.
Tale conflitto di interesse non appare, invece, sussistere nell’ipotesi in cui il componente di un organo di controllo (il responsabile per la prevenzione della corruzione), quindi non dirigenziale, assuma l’incarico elettivo di consigliere comunale.
Dott. Giuseppe De Pascalis
Avv. Michele Bonsegna
Durante l’interrogatorio formale davanti alla P.G. (delegata dal P.M.), nelle indagini su reati a concorso necessario, accade spesso che l’indagato, con le proprie dichiarazioni, evidenzi profili di responsabilità penale di un soggetto terzo, fino ad a quel momento non indagato.
Si tratta della c.d. “chiamata di correo propria”: l’art. 192, co. 3, c.p.p. prevede che “le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in procedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli altri mezzi di prova che ne confermano l’attendibilità“. Tale regola è, poi, estesa dal comma 4 anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di reato collegato a quello per il quale si procede ex art. 371, co. 2, lett. b), c.p.p.. Tale istituto processuale è stato ulteriormente esteso dalla sentenza 01.07.2009 n. 197 della Corte Costituzionale al soggetto coimputato nel medesimo processo.
Ebbene, in tale specifica situazione, è principio conosciuto che l’indagato è tenuto a dire la verità, come il testimone (l’indagato deve essere formalmente avvertito che, se renderà dichiarazioni nei confronti la responsabilità di altri soggetti, ha il dovere di riferire il vero e che, nei confronti di tali soggetti, assumerà la veste di testimone).
Detto principio, introdotto con legge n. 63/2001, in applicazione del principio del fair process sancito in Costituzione con la novella del 1999, trova particolare applicazione nelle indagini per fatti di corruzione, reato a concorso necessario e che comporta spesso che il corrotto, in fase di indagini, accusi il corruttore (e viceversa).
Pertanto, come osservato, l’accusa mossa dall’indagato ad un altro individuo, è soggetta all’obbligo di verità ed ha una notevole conseguenza nel corso del processo. La formazione della prova in dibattimento ed in contraddittorio tra le parti, invero, rende necessario l’esame di uno dei due coimputati nel processo dell’altro. In questa sede, tuttavia, il coimputato esaminato dal P.M. o dalla difesa, assumerà la qualifica non di teste né di mero imputato, bensì di testimone assistito (c.d. “impumone”).
Il coimputato nel medesimo processo, dunque, come accade con riferimento al corrotto ed al corruttore (indagato e poi imputato sulla base delle dichiarazioni, soggette ad obbligo di verità, del primo), può essere chiamato a testimoniare sui fatti addebitati all’altro, ma solo se assistito da un difensore – di fiducia o d’ufficio – il quale deve tutelare il cliente dal rischio di dichiarazioni autoaccusatorie e preavvertito della facoltà di non rispondere.
Tuttavia, laddove il teste assistito rinunciasse ad avvalersi della facoltà di non rispondere, egli – ed in ciò si ritrova l’ambiguità di tale istituto – non sarebbe soggetto ad un obbligo di verità: il legislatore, infatti, sospetta del teste assistito, poiché soggetto non disinteressato all’esito del giudizio e, pertanto, subordina l’efficacia probatoria delle sue dichiarazioni alla presenza di riscontri esterni delle stesse (e, se non dovessero esserci tali riscontri, il valore probatorio della testimonianza assistita non sarebbe pieno ed effettivo).
Dott. Giuseppe De Pascalis
Avv. Michele Bonsegna
Nessuna norma di legge impone, espressamente, l’attribuzione di un compenso all’amministratore, non essendo al medesimo applicabile l’art. 1709 sul mandato (che, invece, si presume oneroso), né derivando alcuna presunzione dall’art. 2389; dunque, l’incarico può essere gratuito.
Qualora, in ipotesi, i soci e l’amministratore non abbiano pattuito alcun compenso, né risulti che l’incarico è assunto gratuitamente (o, ancora, che l’amministratore ha rinunciato ex post al compenso stesso), è rimesso al giudice di determinarlo secondo equità, sulla base di un principio generale dell’ordinamento e con determinazione da operare ex ante secondo il criterio della “prognosi postuma” – tenendo conto dei compensi di mercato per prestazioni di analogo contenuto in società di simili dimensioni e del medesimo settore – e non ex post con riguardo ai risultati sociali.
Questo quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la nota sentenza del 16 aprile 2014, n. 8897, secondo la quale “la pretesa di un amministratore di società per azioni al compenso per l’opera prestata ha natura di diritto soggettivo perfetto, sicché ove la misura di tale compenso non sia stata stabilita nell’atto costitutivo o dall’assemblea a norma degli artt. 2363 e 2389 c.c., può esserne chiesta al giudice la determinazione (Cass. 24 febbraio 1997 n. 1647; Cass. 9 agosto 2005 n. 16764). Alla stregua di tali principi, i presupposti per la domanda giudiziale di determinazione del compenso sono costituiti dalla mancata previsione di un compenso all’atto della costituzione della società o dall’assemblea e, ove il compenso venga previsto o deliberato, dalla sua mancata accettazione.”
Pertanto, è permessa azione giudiziale per responsabilità contrattuale dell’ex amministratore, volta al recupero dei compensi non erogatigli dalla società: non potrebbe quest’ultima eccepire, nel caso di amministratore che sia già lavoratore subordinato della società – ciò che accade in contesti aziendali di ridotte dimensioni, come la s.r.l. – che l’attore sia già stato soddisfatto attraverso l’erogazione del compenso quale dipendente della società, essendovi discontinuità tra le qualifiche e le mansioni caratterizzanti l’uno e l’altro ruolo all’interno della organizzazione aziendale.
L’azione in questione è soggetta al principio generale per cui chi rivendica un diritto ha onere di provarne la sussistenza in giudizio. In particolare, la giurisprudenza ha delineato gli specifici adempimenti probatori da assolvere nel caso concreto.
Il ricorrente dovrà, infatti, allegare e provare: i criteri della natura, quantità, qualità dell’attività svolta, nonché il risultato utile conseguito dalla società; ne consegue che, se l’organo giudicante non potrà far uso dei sopraindicati criteri perché l’attore non ha fornito sufficienti elementi in proposito, dovrà necessariamente rigettare la domanda, in quanto la richiesta di liquidazione equitativa non esonera l’interessato dall’obbligo di fornire al giudice gli elementi probatori indispensabili affinché possa procedervi (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 29.10.2014, n. 23004; Cass. n. 12681 del 2003).
Per l’effetto, l’amministratore/dipendente che, senza avere espressamente rinunciato – al momento del conferimento dell’incarico o successivamente – al compenso per le mansioni apicali svolte, può adire l’autorità giudiziaria per richiedere il soddisfacimento del proprio credito, oltre al riconoscimento degli interessi legali sullo stesso e del risarcimento dei danni subiti.
Dott. Giuseppe De Pascalis
Avv. Michele Bonsegna
TAR PUGLIA, Lecce, Sez. III – 26 novembre 2009, n. 2854
DIRITTO URBANISTICO – Ordinanza di demolizione – Esistenza di un sequestro penale – Circostanza scriminante nei riguardi dell’autore dell’abuso – Esclusione – Istanza di dissequestro. L’esistenza di un sequestro penale non rende di per sé illegittima l’ordinanza di demolizione, sul presupposto che la eventuale manomissione dell’immobile configurerebbe il reato di cui all’art. 349 c.p., essendo fatto divieto a chicchessia di alterare o distruggere il “corpo del reato”. In tali casi, infatti, ben può il soggetto interessato chiedere all’Autorità giudiziaria l’autorizzazione ad effettuare la demolizione e, in caso di diniego (connesso a necessità di carattere probatorio nel procedimento penale), potrà addurre l’impossibilità giuridica di adempiere all’ingiunzione di demolizione per escludere le ulteriori conseguenze della mancata demolizione (T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. I, 09 novembre 2007, n. 2040). Pertanto, solo tale ultimo evento, ossia istanza di dissequestro negata, può rilevare come scriminante nei riguardi dell’autore dell’abuso edilizio che non ottemperi all’ordine del Comune, per il noto principio “ad impossibilia nemo tenetur”. Pres. Cavallari, Est. Caprini – D.A. (avv. Bonsegna) c. Comune di Nardò (n.c.) – TAR PUGLIA, Lecce, Sez. III – 26 novembre 2009, n. 2854
DIRITTO URBANISTICO – Ordinanza di demolizione – Omessa indicazione dell’immobile e dell’area di sedime ai fini dell’acquisizione al patrimonio comunale – Ordinanza atipica illegittima – Fondamento. Un’ordinanza di demolizione priva di una completa e precisa individuazione del bene, dell’area di sedime ai fini dell’acquisizione al patrimonio comunale in caso di inottemperanza, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, deve considerarsi atipica illegittima sia perchè differente dal modello legale previsto,sia perché inidonea a determinare il corretto svolgersi del procedimento. Tale omissione, infatti, lungi dall’atteggiarsi a vizio meramente formale, è tale da pregiudicare dal punto di vista sostanziale gli interessi dell’autore dell’abuso, il quale, in primo luogo, deve essere messo in condizione di valutare, in termini di “costo-beneficio”, l’opportunità di adempiere o meno all’ordine di demolizione. L’esatta indicazione appare, inoltre, necessaria, posto che l’effetto ablatorio si verifica immediatamente ed “ope legis” alla scadenza del termine legale o a quello prorogato dall’autorità competente per ottemperare all’ingiunzione a demolire, con acquisto a titolo originario della proprietà libera da eventuali pesi e vincoli preesistenti. L’atto di accertamento dell’inottemperanza e la trascrizione hanno allora solo natura dichiarativa: il primo, per opporre il trasferimento al proprietario responsabile dell’abuso ed immettersi nel possesso, il secondo, per opporre il trasferimento ai terzi (ex multis Tar Puglia Bari, sez. III, n. 538/2006, Cass. Pen. Sez. pen. n. 33297/2003). Pres. Cavallari, Est. Caprini – D.A. (avv. Bonsegna) c. Comune di Nardò (n.c.) – TAR PUGLIA, Lecce, Sez. III – 26 novembre 2009, n. 2854
- 02854/2009 REG.SEN.
N. 00581/2003 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce – Sezione Terza
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 581 del 2003, proposto da:
De Simone Antonio, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Bonsegna, con domicilio eletto presso Giuseppe Vaglio Massa Stampacchia in Lecce, piazza Mazzini n. 72;
contro
Comune di Nardo’;
per l’annullamento
previa sospensione dell’efficacia,
dell’ordinanza di demolizione n.235, prot. 51415, emessa dal responsabile del Settore Urbanistica Ambiente del comune di Nardò, in data 26.11.2002 e notificata il giorno 8.01.2003, nonché di ogni ulteriore provvedimento presupposto, connesso e/o consequenziale.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12/11/2009 la dott.ssa Gabriella Caprini e udito per la parte l’avv. Michele Bonsegna, in sostituzione dell’avv. Giuseppe Bonsegna;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Il ricorrente ha realizzato, in qualità di proprietario – committente, in agro di Nardò, in contrada “Fiume”, una costruzione per abitazione civile di mq. 93.00 circa ed una veranda coperta di mq. 20, senza munirsi della prescritta concessione edilizia. Il Dirigente del Settore Urbanistica del comune di Nardò, con il provvedimento impugnato, ne ha ordinato la demolizione, riservandosi di adottare gli ulteriori provvedimenti, di cui alla legge 47/85, in caso di mancato adempimento. Il ricorrente impugna il suddetto provvedimento, ritenendolo illegittimamente lesivo dei propri interessi.
Alla udienza del 12.11.2009 la causa è stata chiamata e trattenuta in decisione.
DIRITTO
Con i motivi di ricorso, parte ricorrente deduce la violazione di legge, ed in particolare, la violazione dell’art. 7 della l. n. 47/’85, l’eccesso di potere e l’irragionevolezza dell’azione amministrativa.
Tali motivi sono fondati nei termini che seguono.
Sostiene, in primo luogo, il ricorrente di trovarsi nell’impossibilità di eseguire l’ingiunzione di demolizione delle opere abusive, essendo l’edificio sottoposto a sequestro giudiziario.
A tal proposito, osserva il Collegio che l’esistenza di un sequestro penale non rende di per sé illegittima l’ordinanza di demolizione, sul presupposto che la eventuale manomissione dell’immobile configurerebbe il reato di cui all’art. 349 c.p., essendo fatto divieto a chicchessia di alterare o distruggere il “corpo del reato”.
In tali casi, infatti, ben può il soggetto interessato chiedere all’Autorità giudiziaria l’autorizzazione ad effettuare la demolizione e, in caso di diniego (connesso a necessità di carattere probatorio nel procedimento penale), potrà addurre l’impossibilità giuridica di adempiere all’ingiunzione di demolizione per escludere le ulteriori conseguenze della mancata demolizione (T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. I, 09 novembre 2007, n. 2040).
Pertanto, solo tale ultimo evento, ossia istanza di dissequestro negata, può rilevare come scriminante nei riguardi dell’autore dell’abuso edilizio che non ottemperi all’ordine del Comune, per il noto principio “ad impossibilia nemo tenetur”.
Deve, invece, ritenersi fondata la censura relativa alla violazione dell’art. 7 della l. n. 47/’85, ora art. 31 del d.P.R. 380/2001, in quanto l’ordinanza non indicherebbe, con esattezza, i beni da acquisirsi in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione. Tale provvedimento contiene esclusivamente la generica riserva, da parte dell’Amministrazione comunale, della adozione degli “ulteriori provvedimenti previsti dalla citata l. n. 47/‘85” (ossia, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area su cui sorge l’immobile abusivo e quella necessaria, in base ai vigenti strumenti urbanistici, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva), nonché l’avvertimento che l’inottemperanza costituisce “titolo per l’immissione nel possesso e la trascrizione nei registri immobiliari”, senza, però, che sia ivi esattamente indicata la superficie dell’area che, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, verrebbe acquisita di diritto.
Tale omissione, lungi dall’atteggiarsi a vizio meramente formale, è tale da pregiudicare dal punto di vista sostanziale gli interessi del ricorrente, il quale, in primo luogo, deve essere messo in condizione di valutare, in termini di “costo-beneficio”, l’opportunità di adempiere o meno all’ordine di demolizione.
L’esatta indicazione appare, inoltre, necessaria, posto che l’effetto ablatorio si verifica immediatamente ed “ope legis” alla scadenza del termine legale o a quello prorogato dall’autorità competente per ottemperare all’ingiunzione a demolire, con acquisto a titolo originario della proprietà libera da eventuali pesi e vincoli preesistenti. L’atto di accertamento dell’inottemperanza e la trascrizione hanno allora solo natura dichiarativa: il primo, per opporre il trasferimento al proprietario responsabile dell’abuso ed immettersi nel possesso, il secondo, per opporre il trasferimento ai terzi (ex multis Tar Puglia Bari, sez. III, n. 538/2006, Cass. Pen. Sez. pen. n. 33297/2003).
Nel caso di omessa indicazione nell’ordine di demolizione dell’area di sedime e di quella necessaria, in base ai vigenti strumenti urbanistici, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva,l’effetto traslativo conseguente ope legis all’inottemperanza all’ordine non potrà ovviamente verificarsi,né sarà possibile un atto di accertamento di ciò che non si è verificato .
Pertanto, non appare sufficiente al Collegio il mero richiamo alla formula dell’art. 7, ora art. 31, citato.
In questo senso, una ordinanza priva di una completa e precisa individuazione del bene, dell’area di sedime e delle eventuali cd. pertinenze urbanistiche – vale a dire delle aree necessarie alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive – deve considerarsi atipica illegittima sia perchè differente dal modello legale previsto,sia perché inidonea a determinare il corretto svolgersi del procedimento.
Sulla base delle sovra esposte considerazioni, il ricorso merita accoglimento, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte.
Spese irripetibili.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia – Lecce – sezione terza accoglie il ricorso indicato in epigrafe.
Spese irripetibili.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 12/11/2009 con l’intervento dei Magistrati:
Con l’entrata in vigore della l. n. 186/2014, in data 1.1.2015, viene introdotto nell’ordinamento il delitto di “autoriciclaggio”, previsto dall’art. 648-ter c.p. che così legge: “Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attivita’ economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilita’ provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.
Il nuovo reato è stato altresì aggiunto al catalogo dei reati presupposto di cui al d.lgs. n. 231/2001 all’art. 25-octies.
La fattispecie, al pari di altre previste nel c.d. “catalogo” 231, è di natura aperta in quanto presuppone la commissione di reati presupposto non predeterminati. Certamente, ai fini della responsabilità amministrativa dell’ente, quel che più rileva è la possibile commissione del reato di cui all’art. 648-ter a seguito della commissione di reati di natura tributaria (reati che, autonomamente considerati, non ricadono nel “catalogo” previsto dal d.lgs. n. 231). Si pone quindi il problema, già venuto in rilievo per la fattispecie dell’associazione per delinquere, relativo alla rilevanza, ai fini della responsabilità dell’ente, di condotte di autoriciclaggio poste in essere dall’ente in conseguenza di reati presupposto non ricadenti nel catalogo 231, segnatamente quelli tributari.
Gli enti dotati del sistema di prevenzione di cui al d.lgs. n. 231/2001 dovranno comunque provvedere all’aggiornamento del sistema stesso, dopo adeguata analisi del rischio di commissione del reato.
Con D.M. 20 febbraio 2014 n. 57 pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 7.4.2014, è stato approvato il regolamento attuativo che individua le modalità con cui la PA e le banche devono tenere conto del rating della legalità.
Si ricorderà che il decreto liberalizzazioni nel testo convertito in legge nel marzo 2012 prevedeva che “del rating attribuito si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario”.
L’AGCM aveva poi provveduto nel novembre 2012 ad approvare il proprio regolamento relativo ai requisiti per l’attribuzione del rating della legalità.
Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in vigore dal 8.4.201,4 rende effettivi i benefici del rating della legalità prevedendo quanto segue.
Relativamente ai benefici inerenti la preferenza da accordare alle imprese nell’ambito della concessione di finanziamenti pubblici, oltre ad alcune semplificazioni inerenti le dichiarazioni da rendere, entro 120 giorni dall’entrata in vigore del regolamento, i bandi per la concessione dei finanziamenti dovranno prevedere almeno uno dei seguenti sistemi di premialita’ delle imprese in possesso del rating di legalita’:
a) preferenza in graduatoria;
b) attribuzione di punteggio aggiuntivo;
c) riserva di quota delle risorse finanziarie allocate.
Relativamente all’accesso al credito bancario si prevede che “Le banche tengono conto della presenza del rating di legalita’ attribuito alla impresa nel processo di istruttoria ai fini di una riduzione dei tempi e dei costi per la concessione di finanziamenti. (…) Le banche considerano il rating di legalita’ tra le variabili utilizzate per la valutazione di accesso al credito dell’impresa e ne tengono conto nella determinazione delle condizioni economiche di erogazione, ove ne riscontrino la rilevanza rispetto all’andamento del rapporto creditizio”.