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LA SENTENZA DICHIARATIVA DI FALLIMENTO: DI NUOVO ALL’ATTENZIONE DELLA CASSAZIONE

bancarotta

 

La sezione V della Corte di Cassazione ha avuto nuovamente modo di esprimersi sul ruolo giocato dalla sentenza dichiarativa di fallimento nelle fattispecie di bancarotta.

Lo scenario di partenza

Proprio a marzo dello scorso anno, la stessa sezione della Corte di Cassazione aveva ribaltato le carte in tavola, con una pronuncia rivoluzionaria: la sentenza n. 13910 del 22 marzo 2017 (ud. 8 febbraio 2017). Con la stessa, finalmente, accoglieva la tesi propugnata dalla dottrina ormai da anni: la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione obiettiva di punibilità e non un elemento costitutivo del reato di bancarotta. Vale la pena ricordare che la Suprema Corte non mutava orientamento dal lontano 1958, anno in cui le Sezioni Unite avevano affermato che la sentenza in esame rivestisse il ruolo di elemento costitutivo del reato. La dottrina, dal canto suo, giudicava inaccettabile una tale ricostruzione con varie argomentazioni, prima fra tutte il fatto che si trattasse di un provvedimento giurisprudenziale, come tale sottratto alla volizione dell’agente.

A distanza di un anno, il 6 marzo 2018, la Sezione V ha depositato le motivazioni della pronuncia n. 10117/2018 che riguarda ancora una volta proprio la sentenza dichiarativa di fallimento.

La sentenza dichiarativa di fallimento nel caso di specie

In particolare, ha avuto modo di pronunciarsi sulla sindacabilità della stessa in sede penale. Nel caso di specie i ricorrenti, condannati per bancarotta preferenziale, lamentano una cattiva valutazione della condizione di insolvenza della società. Quest’ultima infatti costituisce un presupposto fondamentale della fattispecie in esame, sicché senza insolvenza non c’è bancarotta.

Gli imputati ritengono che il giudice di merito avrebbe dovuto verificare in concreto l’esistenza di una situazione di insolvenza, senza limitarsi a ricavare la stessa dalla sentenza di fallimento. Si sarebbe verificata, quindi,

una omessa valutazione della prova mirante a dimostrare l’insussistenza della condizione di insolvenza, sia all’epoca dei fatti in contestazione che al momento della sentenza dichiarativa di fallimento”.

La questione affrontata dalla Corte

La Corte è dunque investita di una questione nuova: attinente alla possibilità per il giudice penale di discostarsi dalle valutazioni effettuate in sede civilistica con riguardo allo stato di insolvenza, accertato con la sentenza dichiarativa di fallimento. Orbene, la Cassazione ribadisce che “quando un atto giuridico è assunto quale dato della fattispecie penale (non importa se come elemento costitutivo del reato o come condizione di punibilità), esso è sindacabile dal giudice penale nei soli limiti e con gli specifici mezzi previsti dalla legge”.

La sentenza di fallimento nel processo penale: il principio espresso

Statuisce dunque che:

Laddove, […] come nel caso della  sentenza  dichiarativa di  fallimento , si tratti di un provvedimento giudiziale, il giudice penale non ha alcun potere di sindacato, dovendo limitarsi a verificare l’esistenza dell’atto e la sua validità formale, non potendo compiere alcuna valutazione, neppure incidentale, sulla legittimità di essa, perché le sentenze, a prescindere dalla loro definitività, hanno un valore che può essere messo in discussione solo con i mezzi ordinari o straordinari di impugnazione previsti dalla disciplina processuale”.

Secondo l’impostazione offerta dalla Suprema Corte, la sentenza di fallimento assume rilevanza in qualità di provvedimento giurisdizionale e i presupposti in essa accertati “non costituiscono questioni pregiudiziali, di cui possa ritenersi investito il giudice penale”.

A questi fini non rileva, dunque, che la sentenza di fallimento costituisca un elemento costitutivo del reato o una condizione obiettiva di punibilità: la situazione d’insolvenza in essa cristallizzata non può essere sindacata in sede penale.

Avv. Serena Miceli

Avv. Michele Bonsegna