X

I PAGAMENTI IN CONTANTI SOPRA SOGLIA: PROFILI PENALISTICI ED OBBLIGHI DI COMUNICAZIONE AL MEF.

 

Come noto, nell’ottica di tutelare ed implementare il principio della trasparenza e della correttezza del mercato, il legislatore è intervenuto negli ultimi anni limitando la circolazione del denaro contante. In tale ottica è stato posto un tetto massimo ai pagamenti in contanti, che in precedenza era pari a 999,99 euro ed oggi è stato innalzato a 2999,99 euro.

Nello studio della casistica ricorrente, è bene soffermarsi ad analizzare quella del dipendente di una società che, durante una transazione commerciale, accetti pagamenti in contanti per valori oltre-soglia, in maniera frazionata, ricevendo più pagamenti di importo minore rispetto al citato tetto legale di utilizzo del contante, ma, comunque, per l’erogazione di una prestazione unitaria.

Orbene, detto comportamento può astrattamente integrare la fattispecie giuridica del riciclaggio individuata dall’art. 648-bis c.p. e far scattare gli obblighi di comunicazione di operazioni sospette ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231[1].

IL CONCETTO DI RICICILAGGIO SECONDO L’ART. 648 BIS C.P.

Al fine di meglio addentrarsi nello studio della materia in esame non si può prescindere dalla individuazione della definizione di riciclaggio riportata dall’art. 648-bis c.p.:detta norma incrimina il comportamento di colui che, fuori dei casi di concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

Si deve ricordare che la giurisprudenza ravvisa nel riciclaggio un reato a forma libera che può essere integrato da qualsiasi condotta idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene ricevuto[2]. L’elemento oggettivo della condotta in esame, dunque, consiste nella dissimulazione della provenienza illecita del bene economico ricevuto.

Tuttavia, anche il contegno dissumulatorio, pur necessario, non è, di per sé, sufficiente a configurare l’ipotesi di reato in questione.

Chi accetta il bene deve anche essere consapevole della provenienza delittuosa dello stesso[3].

Sovrapponendo, ora, la definizione di riciclaggio al caso in esame – e, cioè, al pagamento effettuato in contanti per importi superiori alla soglia ma conferito frazionatamente – il reato sussiste nel momento in cui colui che agisce è consapevole della provenienza delittuoso del denaro e pone in essere comportamenti tali da rendere difficile l’identificazione della provenienza delittuosa stessa.

 

LA RATIO E GLI SCOPI DELL’ART. 51 DEL D. LGS. 231/2007.

Definito il concetto di riciclaggio, è doveroso incrociare il dettato della norma con la ratio e gli scopi dell’art. 51 del D. Lgs. 231/2007, al fine di comprendere quando scatti l’obbligo di comunicazione al M.E.F. delle operazioni sospette.

Ebbene, l’obbligo di comunicazione, ai sensi del citato art. 51 – come, più in generale, quelli individuati dall’intero D. Lgs. 231/2007 – è stato posto dal legislatore per tutelare, da un lato, la correttezza e la trasparenza del sistema economico e, dall’altro, per punire il reimpiego di valori economici provenienti da reato (ciò che è la finalità della norma penale). L’ampiezza della ratio della normativa si riverbera anche sulla portata del concetto di riciclaggio adoperato nel testo dello stesso decreto[4], tanto che l’ambito di applicazione del D. Lgs. 231/2007 è più vasto rispetto alla fattispecie di riciclaggio di cui all’art. 648-bis c.p..

Definito il doppio binario delle ragioni a fondamento della doverosità delle operazioni sospette, è opportuno cercare di stabilire cosa debba intendersi per “sospetto”.

Orbene, detta connotazione può essere attribuita alla eventuale presenza di indicatori di anomalia nella concreta esplicazione della operazione economica. Tali indicatori, aggiornati costantemente dalla Banca d’Italia, costituiscono gli strumenti di ausilio previsti dal d.lgs. 231/2007 per la rilevazione delle operazioni sospette[5] e permettono al soggetto che è tenuto a segnalare l’operazione sospetta una valutazione quanto più oggettiva possibile, come richiesto dalla giurisprudenza[6].

Ciò posto, anche se la stessa Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia[7] sottolinea, di concerto con la giurisprudenza settoriale, che tali indicatori non sono esaustivi né tassativi, dagli stessi bisogna partire per accertare se un’operazione possa essere o meno definita sospetta.

Uno dei più importanti indicatori di anomalia è proprio il “ricorso a tecniche di frazionamento dell’operazione con presumibili finalità elusive degli obblighi di adeguata verifica o di registrazione, in assenza di giustificate esigenze rappresentate dal cliente, soprattutto se volte a dissimulare il collegamento con altre operazioni”. Il Decreto specifica, in proposito, che è da considerarsi frazionata quella “operazione unitaria sotto il profilo economico, di valore pari o superiore ai limiti stabiliti dal presente decreto, posta in essere attraverso più operazioni, singolarmente inferiori ai predetti limiti, effettuate in momenti diversi ed in un circoscritto periodo di tempo fissato in sette giorni ferma restando la sussistenza dell’operazione frazionata quando ricorrano elementi per ritenerla tale”.

La normativa finora richiamata parrebbe sancire il principio secondo il quale il frazionamento del pagamento, in quanto indicatore di anomalia, rende sospetta, ispo facto, l’operazione.

Ma così, tuttavia, non è.

Come l’operazione è sospetta al cospetto di elementi anomali oggettivamente individuabili, così il frazionamento può dirsi “scriminato” laddove il medesimo sia posto in essere per oggettive esigenze connaturate ai traffici commerciali.

Infatti, lo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze ha previsto una esimente dal regime sinora illustrato. Come si legge nella Circolare MEF n. 2 del 16/01/2012: “se la suddivisione di un importo pari o superiore a 1.000 euro [ora 3.000 euro] dipende invece da contratti già stipulati tra le parti, di cui si possa avere contezza o prova, che prevedano ad es. rateazioni o somministrazioni, in tal caso può interpretarsi la molteplicità dei trasferimenti come prassi commerciale e non elusione della normativa in questione[8].

Tanto premesso, ove nel caso in esame il bene oggetto della transazione fosse stato fornito proprio sulla base di un contratto di somministrazione – le cui fatture venivano saldate con vari pagamenti in contanti di entità inferiore al tetto massimo per l’uso del contante (ma che, con riferimento al beneficiario della fornitura, supervano lo stesso) – l’operazione non può essere considerata anomala, proprio alla luce di quanto riferito nella narrativa che precede.

Per l’effetto, la condotta tenuta dal dipendente della società non risulta integrare l’ipotesi di reato ex art. 648-bis c.p. né si ravvedono, nella stessa, finalità elusive della normativa antiriciclaggio di cui al D. Lgs. n. 231/2007, atte a far considerare l’operazione “sospetta” e ad impegnare il dipendente (o gli organi societari di controllo) alla comunicazione al MEF.

Dott. Giuseppe De Pascalis

Avv. Michele Bonsegna

 

 

 

[1] L’articolo 51, comma 1, del decreto legislativo 21 novembre 2007, n.231, come da ultimo modificato dall’art. 8, comma 7, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, obbliga i soggetti destinatari della normativa di prevenzione del riciclaggio a comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze le infrazioni alle disposizioni previste dall’art. 49, commi 1, 5, 6, 7, 12, 13, e 14, e dall’art. 50 del citato d.lgs. 231/2007 di cui hanno notizia. Il medesimo comma 1 dell’art. 51 prevede, ancora, che tale obbligo sussiste per consentire al Ministero dell’economia e delle finanze la contestazione delle violazioni, per porre in essere gli altri adempimenti previsti dall’articolo 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689, “e per la immediata comunicazione della infrazione anche alla Guardia di Finanza la quale, ove ravvisi l’utilizzabilità di elementi ai fini dell’attività di accertamento, ne dà tempestiva comunicazione all’Agenzia delle Entrate”.

 

[2] Così Cass. pen. Sez. II, 07/01/2011, n. 546: “Integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio, poiché il delitto di riciclaggio è a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, ed anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un differente istituto di credito. (In applicazione del principio, la Corte ha affermato che il termine di prescrizione, trattandosi di reato continuato, decorre dalla data di ogni singolo prelievo o trasferimento documentalmente individuabile”.

[3] E questo sarebbe secondo la giurisprudenza (Cass. pen. Sez. II, 10/01/2003, n. 18103), l’elemento caratterizzante del riciclaggio, atto a distinguerlo da fattispecie analoghe, come la ricettazione: “Tra il reato di impiego di denaro, beni o utilita’ di provenienza illecita e quello di riciclaggio, nonché tra quest’ultimo e quello di ricettazione vi e’ rapporto di specialità, che discende dal diverso elemento soggettivo richiesto dalle tre fattispecie incriminatrici – essendo comune l’elemento materiale della disponibilità di denaro o altra utilità di provenienza illecita: il delitto di cui all’art. 648 c.p. richiede una generica finalità di profitto, quello di cui all’art. 648-bis c.p. lo scopo ulteriore di far perdere le tracce dell’origine illecita, quello infine di cui all’art. 648-ter c.p. che tale scopo sia perseguito facendo ricorso ad attività economiche o finanziarie”.

[4] Afferma l’art. 2 del Decreto: “1. Ai soli fini del presente decreto le seguenti azioni, se commesse intenzionalmente, costituiscono riciclaggio: a) la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni; b) l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movimento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività; c) l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività; d) la partecipazione ad uno degli atti di cui alle lettere precedenti, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto di agevolarne l’esecuzione. 2. Il riciclaggio e’ considerato tale anche se le attività che hanno generato i beni da riciclare si sono svolte nel territorio di un altro Stato comunitario o di un Paese terzo. 3. La conoscenza, l’intenzione o la finalità, che debbono costituire un elemento degli atti di cui al comma 1, possono essere dedotte da circostanze di fatto obiettive”.

[5] Consultabili in http://uif.bancaditalia.it/.

[6] Il Tribunale di Roma, ad es., con la sentenza n. 4168/2013, ha chiarito che l’obbligo di segnalazione è correlato anche all’esistenza di un mero sospetto, non necessariamente qualificato da ulteriori indizi: “per effettuare una segnalazione di operazione sospetta non sono necessarie prove o indizi concreti di reato di riciclaggio, essendo Sufficiente che l’operazione sia anomala o poco giustificabile e rappresenti un possibile passaggio di operazioni di ripulitura del denaro”. Cass. civ. Sez. V, 30/10/2009, n. 23017 ha affermato: “In materia di sanzioni amministrative per violazione della disciplina antiriciclaggio, ai sensi dell’art. 3 del d.l. n. 143 del 1991 (conv. dalla legge n. 197 del 1991, sostituito dall’art. 1 del d.lgs. n. 153 del 1997), il potere di valutare le segnalazioni e (se le ritenga fondate) di trasmetterle al questore spetta solo al “titolare dell’attività” (ossia all’organo direttivo della banca), mentre il “responsabile della dipendenza” deve segnalare al suo superiore ogni operazione che lo induca a ritenere che l’oggetto di essa possa provenire da reati attinenti al riciclaggio, sulla base di elementi oggettivi riferibili all’operazione stessa o alla capacità economica e all’attività del cliente. Ne consegue che anche una pluralità di operazioni può non richiedere di essere segnalata, se risulti giustificata alla luce dell’attività economica notoriamente svolta dal soggetto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, nell’accogliere l’opposizione riguardante l’omessa segnalazione di operazioni sospette, consistite nel versamento di rilevanti somme di denaro in modo frazionato e parzialmente in contanti, anche da parte di soggetti non titolari di conto corrente presso la stessa banca, aveva valorizzato circostanze che non dovevano essere valutate dal responsabile della dipendenza della banca, come la conoscenza personale del soggetto e la provenienza del denaro)”.

[7] L’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (UIF), istituita dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231  presso la Banca d’Italia in posizione di indipendenza e autonomia funzionale, ha iniziato a operare il 1° gennaio 2008, subentrando all’Ufficio italiano dei cambi (UIC) nel ruolo di autorità centrale antiriciclaggio.

[8] Confermando quanto statuito dal Parere del Consiglio di Stato n. 1504/1995: “Non parrebbe in realtà giustificata l’applicazione del predetto limite all’uso di denaro contante o di titoli al portatore nell’ipotesi in cui sia convenuto un pagamento rateizzato o, comunque, dilazionato nel tempo, con previsione di una pluralità di pagamenti per somme comunque inferiori al limite di legge, come avviene generalmente con il contratto di somministrazione mediante il quale viene pattuita una serie di prestazioni con pagamenti a scadenze prefissate: in tale situazione, pur mettendosi in atto un unico disegno negoziale, la imposizione del limite non risponderebbe ad apprezzabili ragioni di contrasto del riciclaggio, rappresentando invece, in qualche modo, una remora alla normale esplicazione dei rapporti correnti tra gli operatori economici”.