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MODELLO 231 E FALSA CLASSIFICAZIONE DEI RIFIUTI.

Il falso nella classificazione dei rifiuti ha assunto, negli anni, un ruolo centrale nell’ambito degli illeciti ambientali. Con il presente contributo si intende fare riferimento al tema ricorrente della falsità dei certificati, fattispecie ricompresa nell’articolo 258, comma 4 del D. Lgs 152/2006 che prevede nei confronti di “chi, nella predisposizione di un certificato di analisi dei rifiuti, fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante il trasporto”, l’applicazione della pena prevista per il reato di falsità ideologica di cui all’art. 483 c.p.

La legge non disciplina le cautele da osservare per arrivare ad una corretta qualificazione del rifiuto, ma impone un obbligo di risultato, consistente nella veridicità della classificazione dello stesso.

Detto obbligo di qualificazione è a carico del produttore dello stesso, il quale – nel silenzio della legge – può scegliere di essere affiancato dalla figura dell’analista, soggetto incaricato dello svolgimento delle analisi nei casi in cui la classificazione del rifiuto richieda una certificazione analitica.

Ebbene, è all’interno del rapporto tra queste due figure che possono individuarsi delle linee guida, idonee a ridurre l’eventuale colpevolezza del produttore nella fase di accertamento del reato.

È infatti necessario, per la redazione di un certificato di analisi affidabile, l’effettiva conoscenza da parte dell’analista della tipologia del ciclo produttivo, delle metodologie di prelievo, nonché del campionamento inerente ai rifiuti. Tali attività rappresentano, perciò, nel certificato, una commistione di profili fattuali (provenienza del rifiuto, modalità di prelievo, campionamento) e valutativi dei dati esaminati. Solo in questo caso, pertanto, il certificato provvede a dare un’esatta indicazione delle circostanze di fatto, indicazione che, sfornita degli elementi inerenti alla fase propedeutica dell’analisi, (ciclo produttivo, metodo del prelievo, ecc), costituirebbe una rappresentazione difforme dal vero dell’attività effettivamente svolta, e configurando, eventualmente, il reato di falso ex art. 479 c.p.[1]

In particolare, qualora l’analista riceva dal produttore il rifiuto con semplice richiesta di analisi, accade, spesso di leggere, nei certificati, locuzioni e diciture standard che facciano sorgere il dubbio sulla veridicità degli stessi, poiché se il professionista/analista non è a conoscenza, ad esempio, dei cicli produttivi, potrebbe non essere in grado di assegnare un codice CER pertinente.

Al fine di escludere la configurabilità del falso è quindi necessario che il certificato metta in condizione l’organo di controllo di conoscere il processo logico seguito e gli accertamenti effettuati e che il produttore imposti con l’analista, in sede di caratterizzazione del rifiuto, procedure trasparenti e indicazioni precise sugli elementi fattuali della “storia del rifiuto”. Solo in questo modo, infatti, si potrà contribuire ad incrementare l’affidabilità della classificazione, ai fini della valutazione della colpevolezza e della esclusione della configurabilità del falso.

Occorre, a questo punto, esaminare i criteri di verifica della falsità nell’ambito dell’accertamento del reato: non è sempre agevole, infatti, stabilire se si è in presenza di un certificato falso o meramente inidoneo allo scopo. Si deve, innanzitutto, premettere che l’attività degli organi di controllo si svolge secondo il principio generale del carattere non cogente dei metodi di campionamento, che caratterizza la fase degli accertamenti tecnici negli illeciti ambientali. Tale regola generale prescrive che l’attività dell’organo di controllo, ossia, le operazioni e le analisi della polizia amministrativa volte a stabilire se le sostanze prelevate siano conformi alla normativa, non è vincolata alle disposizioni rivolte al gestore della discarica, in quanto tali norme regolano la fase di ammissione del rifiuto nell’impianto; e l’eventuale inosservanza da parte degli organi di controllo delle prescritte modalità, non determinerebbe nullità delle operazioni, ma tutt’al più costituirebbe una irregolarità che andrebbe eventualmente verificata dal giudice in sede di accertamento di merito, sulla base del suo libero convincimento[2] e con adeguate motivazione[3].

Premesso tale dato, è opportuno soffermarsi, ora, sugli oneri a carico del produttore tra cui figurano quello di rappresentatività del campione e di conservazione dello stesso. V’è da dire, con riguardo al primo, che la sua mancanza non acquisisce rilevanza ai fini della verifica dell’autorità procedente, con la conseguenza che è legittimamente svolto un esame della sola massa disponibile messa a disposizione dal produttore; così, in tema di terre da scavo, si è ritenuto con la sentenza Cass. Pen., sez. III, n. 49826/2009 che “l’attività dell’indagato sostanziatasi nel fare analizzare da un laboratorio privato solo 5 kg di materiale a suo dire scavato nel cantiere di una erigenda discarica, corrobora la tesi di un comportamento complessivo tendente ad eludere le disposizioni vigenti”.

Per ciò che concerne l’onere di conservazione del campione, invece, non vi sono previsioni normative che stabiliscono un periodo minimo entro cui il campione deve essere conservato, basandosi, lo stesso, su regole generali di cautela.

Nei casi in cui il riscontro analitico non appaia possibile a causa dell’inidoneità del rifiuto, infine, intervengono alcuni elementi indiziari atti a comprovare il rapporto con l’analista, quali l’eventuale richiesta di analisi, la conferma d’ordine o semplicemente prove, meramente cartacee, che dimostrino l’attività svolta con l’analista stesso.

In conclusione, dalla breve analisi qui svolta, appare evidente come solo l’impiego di un controllo capillare e di un’attenzione meticolosa nell’ambito delle operazioni riguardanti la classificazione e la certificazione del rifiuto, possa delimitare il rischio in capo al produttore di incorrere nel reato di falso ideologico, controbilanciando, così, il sempre più intransigente comportamento degli organi di controllo nell’ambito degli illeciti ambientali.

L’evitare di classificare un rifiuto in luogo di un altro può certamente assurgere a rimedio da inserire nelle procedure societarie allegate al modello 231: tanto al fine di scongiurare la commissione del reato ambientale – previsto e punito dall’art. 256 del D. Lgs. 152/2006 (cfr. art. 25 undecies del D. Lgs. 231/2001) – che si concretizzerebbe con il successivo trasporto e smaltimento non corretto del rifiuto male individuato.

Dott.ssa Federica Striani

Avv. Michele Bonsegna

 

 

 

 

 

[1] Cass. pen., sez. V, n. 39360/2011.

[2] Così, Cass. Pen. Sez. III, n. 10937/2013, secondo cui “la verifica della corretta attribuzione del codice costituisce un accertamento in fatto che (…) dovrà essere effettuato dal giudice del merito”.

[3] Cass. Pen., sez. III, n. 9489/2009.