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La responsabilità delle società: il Modello 231, uno strumento fondamentale per le imprese sostenibili

Intervista a Michele Bonsegna, Consigliere direttivo di AODV231

Sono passati oltre vent’anni da quando, nel 2001, il legislatore nazionale ha introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di imputabilità della persona giuridica con l’adozione del cosiddetto “Modello 231”, secondo il D. Lgs. 231/2001. Un momento di svolta decisivo per la gestione della governance delle aziende. In altre parole, come noto, prima dell’intervento del decreto legislativo del 2001, solo la persona fisica poteva sedere al banco degli imputati all’interno del processo penale. A partire dall’entrata in vigore del Decreto sulla Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche derivante da reato, invece, anche la società può essere parte di un procedimento penale, risultando titolare di una posizione giuridica a sé stante e indipendente da quella della persona fisica che ha materialmente compiuto il fatto di reato. 

Un altro concetto fondamentale introdotto dal legislatore tramite il Modello 231, è la descrizione delle modalità con cui l’azienda può risultare esente da contestazione penale, anche laddove la Procura della Repubblica e il Tribunale, abbiano individuato un comportamento criminoso compiuto, nell’interesse e a vantaggio della società, da parte di un soggetto appartenente alla compagine aziendale (individuato come cosiddetto “apicale” o “sottoposto” a seconda della posizione occupata nell’organigramma societario). 

Con l’entrata in vigore della direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), che richiede a decine di migliaia di imprese europee di adottare modelli di corporate governance virtuosi, il Modello 231 assume un’importanza ancora più cruciale. Se usato con consapevolezza e se integrato con le disposizioni della direttiva europea, tale strumento, come sottolineato dal CNDCEC (Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili) in un recente report, può supportare le società nella gestione dei rischi aziendali e nel saper cogliere le migliori opportunità per affermarsi come organizzazioni sostenibili. 

In questa intervista, Michele Bonsegna, avvocato e consigliere direttivo di AODV231, approfondisce le caratteristiche normative del Modello 231 e l’importante ruolo svolto da AODV231, l’associazione che riunisce i componenti degli organismi di vigilanza che sono coinvolti nella fase di implementazione del Modello.

Quali sono i modelli organizzativi e di gestione previsti dal legislatore che consentono alle aziende di mitigare i rischi di responsabilità in relazione a quanto previsto dal Decreto 231?

Il mezzo a disposizione delle persone giuridiche per rifuggire una condanna penale che potrebbe pregiudicare, anche pesantemente, la continuità aziendale, è rappresentato dai Modelli di organizzazione e gestione previsti dall’articolo 6 del Decreto legislativo 231 del 2001: un insieme di principi giuridici e regole operative posti a presidio dell’attività d’impresa concretamente svolta. Norme, cioè, individuate come bussola dell’agire societario al fine di scongiurare il rischio di incorrere in intoppi legali e perdite economiche derivanti dalla violazione del diritto vigente. 

Vi è di più: non è infatti sufficiente, per l’impresa, adottare semplicemente  il Modello di cui al citato Decreto, dal momento che, secondo il legislatore, occorre anche che la società dia concreta ed efficace attuazione alle previsioni contenute del modello con l’individuazione di uno o più professionisti ai quali affidare la carica di “Organismo di Vigilanza”: vale a dire, usando le parole del legislatore, “un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo” al quale è affidato “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento”.

A quali figure viene di solito affidato tale compito e quali expertise devono avere?

Detto ruolo può essere ricoperto tanto da chi redige il modello organizzativo, poi approvato e fatto proprio dalla società, tanto da altro soggetto che non ha partecipato alla stesura e che interviene solo dopo l’approvazione del modello. A patto, però, unanimemente sostiene la giurisprudenza, che si tratti di un professionista qualificato allo svolgimento dell’incarico conferito – avendo registrato esperienza nel campo della organizzazione societaria e della prevenzione del rischio penale – sia un soggetto terzo rispetto alla società e, cioè, non abbia con la stessa un rapporto continuativo di dipendenza o consulenziale e al quale venga affidato un budget di spesa idoneo a svolgere il proprio ruolo ispettivo e di controllo senza vincolo di sottoposizione alla società stessa. 

Nel 2008 è nata AODV231, l’associazione che riunisce i componenti degli organismi di vigilanza. Quali sono i suoi compiti e gli obiettivi?

Nel 2008 è nata AODV231, l’Associazione dei Componenti degli Organismi di Vigilanza ex D. Lgs. 231/2001: un’associazione senza fini di lucro, che riunisce professionisti e esponenti aziendali che vivono in prima persona l’esperienza, appena citata, degli Organismi di Vigilanza (OdV) creati secondo quanto previsto dal Decreto 231. L’associazione riunisce un numero crescente di soci, a oggi oltre 1450, provenienti sia dalle realtà aziendali sia dagli studi professionali, che ricoprono la carica di componenti di OdV e accoglie anche la partecipazione di soggetti deputati a coadiuvare gli OdV (quali internal audit, compliance, affari legali) e consulenti. L’associazione, grazie alle loro esperienze, ha studiato, nel corso del tempo, l’applicazione sul campo del Decreto e le sue implicazioni, a livello generale, sulle questioni della governance, dei controlli e dell’etica d’impresa.

Cosa riscontra l’Associazione riguardo l’evoluzione della normativa nell’esperienza quotidiana delle imprese?

A distanza di oltre vent’anni, il perimetro di applicazione e le funzioni di quei modelli che descriveva l’articolo 6, decreto legge 231/2001 e, per estensione, dei compiti affidati agli Organismi di Vigilanza,  si sono progressivamente ampliati, sia sulla scorta dell’estensione, in sede legislativa, del catalogo dei “reati presupposto” della responsabilità secondo quanto previsto dal Decreto legge. 231/2001, sia sulla spinta dell’esperienza accumulata, nella quotidianità delle realtà aziendali, dai consulenti chiamati a svolgere, nei confronti dell’impresa, funzioni di controllo. 

Grazie alla grande elasticità dei modelli di organizzazione e gestione descritti dal legislatore, nonché in ragione della mancanza, all’interno dell’ordinamento giuridico così come del mondo economico, di altri strumenti altrettanto efficaci e riconosciuti, la compliance231 costituisce oggi un pregiato strumento di “legalizzazione” dell’impresa di ampio spettro, che non è più soltanto legato alla necessità di prevenire la commissione di un fatto-reato rilevante, ma già svolge – e può svolgere ancor di più in futuro – una funzione di risk assessment aziendale. Un’attività, cioè, che a partire dalle fattispecie penalmente rilevanti, giunge fino a individuare, prevenire e controllare pressoché ogni profilo di rischio operativo per l’impresa. Tanto è potuto accadere, tra le altre cose, grazie a un progressivo incremento del dialogo, del confronto e dell’integrazione tra simili presidi di autoregolamentazione dell’impresa e i sistemi di gestione adottati dalla stessa.  

Ecco, all’interno di un simile contesto, si è dapprima diffusa l’applicazione di un vero proprio principio di legalità all’attività economica e poi, sull’onda di una graduale estensione degli altri oneri posti a carico dell’impresa in termini di conformità alla legge, trasparenza e responsabilità sociale, sembra rintracciarsi la necessità complessiva di improntare l’impresa a un principio di sostenibilità globale: economica, finanziaria, ma anche ambientale e sociale. 

Ci può spiegare il progressivo allargamento delle competenze dell’OdV nei confronti della compliance societaria verso la sostenibilità?

Si tratta di un segnale estremamente chiaro che non proviene soltanto dai poteri legislativi di ogni livello (regionale, nazionale, europeo), ma che ricalca anche le aspettative e gli orientamenti del mondo economico – agenzie di rating, autorità di sorveglianza, istituti bancari, e altri – nonché i desideri e le pretese del mercato e dei consumatori. Sempre di più, infatti, i modelli di business sono chiamati a misurarsi con il paradigma “ESG”, cioè con quegli indicatori non finanziari che misurano l’impatto ambientale (E), sociale (S) e gestionale (G) dell’impresa. 

A livello legislativo, si registrano numerosissimi esempi del processo appena descritto: si pensi, ad esempio, al riconoscimento, in ambito giurisprudenziale, del diritto al clima (che, secondo un recente storico pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, costituisce una parte essenziale degli obblighi in capo agli Stati nella promulgazione di norme a protezione dei diritti umani) ovvero all’evoluzione delle normative europee relative agli obblighi, per le società, di fornire, oltre alle informazioni relative allo stato di salute e di equilibrio economico-finanziario dell’impresa, anche dati riguardanti le performance “non finanziarie” della stessa. 

Già la Direttiva 2014/95/UE (Non Financial Report Directive, NFRD) del 22 ottobre 2014 aveva imposto, alle aziende di grandi dimensioni, la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario relative, cioè, ai rischi ambientali e sociali affrontati nel corso dell’attività d’impresa e agli impatti di quest’ultima sulla comunità umana e sull’ambiente naturale di riferimento. Di recente, è poi intervenuta la cruciale modifica apportata dalla Direttiva 2022/2464/UE (Corporate Sustainability Reporting Directive, CSRD) che, tra le altre cose, ha ampliato notevolmente il perimetro di aziende onerate della redazione dell’informativa di sostenibilità e implementato l’affidabilità delle informazioni contenute nel Report di sostenibilità, sulla scorta dell’adozione di un unico standard di rendicontazione (ESRS) e dell’obbligo di affidare la revisione del report a soggetti qualificati.

Quindi qual è la strada per le aziende per risultare correttamente organizzate verso il monitoraggio delle variabili di sostenibilità alla luce di quanto previsto dalla 231?

In definitiva, sembra di potere affermare, senza timore di smentita, che non vi sia oggi alcun margine di scelta per le imprese: per risultare compliantcon le normative vigenti, così come per mantenere un buon merito creditizio e per vantare, presso il mercato, una buona reputazione e un’immagine di affidabilità, non vi è altra strada che adeguare i processi produttivi all’insegna della tutela dei cosiddetti fattori ESG. A titolo esemplificativo, nell’ambito delle politiche della sostenibilità ambientale le imprese possono orientare la propria organizzazione  alla riduzione delle emissioni, alla preferenza per le energie rinnovabili, al contenimento del consumo di acqua, al corretto smaltimento dei rifiuti, alla circolarità del processo economico e al controllo reputazione dei fornitori ambientali; nell’ambito sociale le imprese dovranno garantire le migliori pratiche per la tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro dei propri dipendenti, il trattamento economico adeguato e l’inclusione dei dipendenti di ogni genere; infine, riguardo alle politiche di corretta governance, le società potranno procedere alla implementazione di idonei protocolli gestionali, alla adozione di modelli di organizzazione, alla definizione di investimenti per la innovazione, digitalizzazione, formazione e ricerca: il tutto a mezzo di strategie di mercato ispirate alla legalità d’impresa.

Si tratta, in altre parole, della necessità per le società di monitorare il processo che porta alla realizzazione del prodotto o servizio finale, individuando, da un lato, le attività d’impresa che caratterizzano ogni possibile impatto sulla governance, sui dipendenti e sulla matrice ambientale e, dall’altro, di predisporre le adeguate misure organizzative atte ad assicurare la sostenibilità e la continuità dell’attività svolta.

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