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IL DIRITTO ALLA RETRIBUZIONE DELL’AMMINISTRATORE.

Nessuna norma di legge impone, espressamente, l’attribuzione di un compenso all’amministratore, non essendo al medesimo applicabile l’art. 1709 sul mandato (che, invece, si presume oneroso), né derivando alcuna presunzione dall’art. 2389; dunque, l’incarico può essere gratuito.

Qualora, in ipotesi, i soci e l’amministratore non abbiano pattuito alcun compenso, né risulti che l’incarico è assunto gratuitamente (o, ancora, che l’amministratore ha rinunciato ex post al compenso stesso), è rimesso al giudice di determinarlo secondo equità, sulla base di un principio generale dell’ordinamento e con determinazione da operare ex ante secondo il criterio della “prognosi postuma” – tenendo conto dei compensi di mercato per prestazioni di analogo contenuto in società di simili dimensioni e del medesimo settore – e non ex post con riguardo ai risultati sociali.

Questo quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la nota sentenza del 16 aprile 2014, n. 8897, secondo la quale “la pretesa di un amministratore di società per azioni al compenso per l’opera prestata ha natura di diritto soggettivo perfetto, sicché ove la misura di tale compenso non sia stata stabilita nell’atto costitutivo o dall’assemblea a norma degli artt. 2363 e 2389 c.c., può esserne chiesta al giudice la determinazione (Cass. 24 febbraio 1997 n. 1647; Cass. 9 agosto 2005 n. 16764). Alla stregua di tali principi, i presupposti per la domanda giudiziale di determinazione del compenso sono costituiti dalla mancata previsione di un compenso all’atto della costituzione della società o dall’assemblea e, ove il compenso venga previsto o deliberato, dalla sua mancata accettazione.”

Pertanto, è permessa azione giudiziale per responsabilità contrattuale dell’ex amministratore, volta al recupero dei compensi non erogatigli dalla società: non potrebbe quest’ultima eccepire, nel caso di amministratore che sia già lavoratore subordinato della società – ciò che accade in contesti aziendali di ridotte dimensioni, come la s.r.l. – che l’attore sia già stato soddisfatto attraverso l’erogazione del compenso quale dipendente della società, essendovi discontinuità tra le qualifiche e le mansioni caratterizzanti l’uno e l’altro ruolo all’interno della organizzazione aziendale.

L’azione in questione è soggetta al principio generale per cui chi rivendica un diritto ha onere di provarne la sussistenza in giudizio. In particolare, la giurisprudenza ha delineato gli specifici adempimenti probatori da assolvere nel caso concreto.

Il ricorrente dovrà, infatti, allegare e provare: i criteri della natura, quantità, qualità dell’attività svolta, nonché il risultato utile conseguito dalla società; ne consegue che, se l’organo giudicante non potrà far uso dei sopraindicati criteri perché l’attore non ha fornito sufficienti elementi in proposito, dovrà necessariamente rigettare la domanda, in quanto la richiesta di liquidazione equitativa non esonera l’interessato dall’obbligo di fornire al giudice gli elementi probatori indispensabili affinché possa procedervi (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 29.10.2014, n. 23004; Cass. n. 12681 del 2003).

Per l’effetto, l’amministratore/dipendente che, senza avere espressamente rinunciato – al momento del conferimento dell’incarico o successivamente – al compenso per le mansioni apicali svolte, può adire l’autorità giudiziaria per richiedere il soddisfacimento del proprio credito, oltre al riconoscimento degli interessi legali sullo stesso e del risarcimento dei danni subiti.

Dott. Giuseppe De Pascalis

Avv. Michele Bonsegna