L’importanza dei controlli interni nell’ambito degli enti appartenenti al c.d. “terzo settore” è pienamente compresa dall’Autorità Nazionale Anticorruzione che, con la Delibera n. 32 del 2016 ha, di fatto, stabilito un vero e proprio obbligo di adozione del “modello 231” per gli enti del terzo settore affidatari di servizi sociali.
L’ANAC è intervenuta nell’ambito degli affidamenti di servizi da parte di enti pubblici agli enti del terzo settore ed alle cooperative sociali, emanando specifiche Linee Guida, al fine di fornire indicazioni operative sia alle stazioni appaltanti che agli operatori privati. Tale intervento si è reso necessario in quanto, pur in presenza di un frequente ricorso da parte delle Amministrazioni Pubbliche agli organismi no-profit per l’acquisto o l’affidamento di numerose prestazioni sociali, mancava una normativa di settore che disciplinasse in maniera organica la materia.
Applicabilità del d.lgs. 231/2001 al Terzo settore
Tra i numerosi aspetti del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 – spesso oggetto di approfondimento dottrinario e giurisprudenziale – uno in particolare si è posto, negli ultimi anni, all’attenzione degli interpreti, ovvero quello relativo alla corretta individuazione degli enti destinatari della responsabilità amministrativa. Questione che ha assunto notevole rilevanza anche a causa del progressivo ampliarsi del catalogo dei reati-presupposto e, con esso, del sempre maggiore ricorso all’utilizzo del Decreto 231 da parte dei tribunali.
In particolare, il problema si è posto in quanto l’art. 1, comma 1, del d.lgs. 231/2001 si limita a prevedere genericamente la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, senza preoccuparsi di circoscrivere la nozione di “ente” se non specificando, al comma successivo, l’applicabilità della disciplina agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
Pertanto, alla luce della formulazione testuale, è dato individuare tra i destinatari della normativa tutte le persone giuridiche (associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato che non svolgono attività economica e che acquistano personalità giuridica ex D.P.R. 10 febbraio 2001, n. 361), le società di capitali e le cooperative, ma anche gli enti privati sprovvisti di personalità giuridica, incluse le società “di fatto” e le società “irregolari”, nonché le associazioni non riconosciute.
D’altronde, la scelta di considerare rilevanti ai fini della norma anche enti a soggettività privata appare logica se si considera che questi possono più agevolmente sottrarsi ai controlli statali e che normalmente non sono previsti controlli legali nei loro confronti, e, pertanto, risultano a maggior rischio di attività illecite.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il contenuto del D.Lgs 231/2001 debba essere applicato ad ogni tipo di soggetto collettivo, ponendo l’attenzione sulla natura effettiva dell’ente. In altre parole, ai fini dell’assoggettamento alla norma appare corretto che la discriminante non debba essere ricercata nella tipologia di soggetto, bensì nell’attività da questo in concreto svolta[1].
Invero, con riferimento all’attività degli enti no-profit, è sufficiente pensare ai valori immobiliari e mobiliari detenuti da alcune fondazioni che ben possono prestarsi a divenire strumento di frodi fiscali, truffe e malversazioni.
In virtù di tali considerazioni, quindi, anche gli enti no-profit sono qualificabili come soggetti a “rischio 231”, considerate, in alcuni casi, le rilevanti conseguenze anche sociali potenzialmente derivanti dalla commissione di un illecito dagli stessi posto in essere.
La delibera ANAC n. 32 del 20 gennaio 2016
Il ruolo fondamentale degli enti no-profit nel comparto dei servizi sociali è ben noto all’Autorità Nazionale Anticorruzione che, con la delibera n. 32/2016 intitolata “Linee Guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali”, fornisce importanti indicazioni operative alle Amministrazioni aggiudicatrici e agli operatori del settore, chiamati ad operare nel rispetto della normativa vigente – in materia di contratti pubblici e di prevenzione della corruzione – e dei principi che ne scaturiscono, in primis parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza. L’intervento dell’authority deve essere letto nel contesto dell’attuale quadro normativo comunitario e nazionale in materia di affidamenti di servizi sociali, nonché delle disposizioni di settore che prevedono la possibilità di effettuare affidamenti agli enti no-profit in deroga all’applicazione del Codice dei contratti pubblici, prevedendo forme di aggiudicazione o negoziali tali da consentire ai suddetti enti di poter esprimere al meglio la propria progettualità.
L’ANAC sottolinea come, oggi, sempre più frequentemente le amministrazioni pubbliche ricorrano agli organismi non commerciali per l’acquisto o l’affidamento di servizi alla persona.
Il settore no profit, infatti, rappresenta una realtà che negli ultimi anni in Italia ha trovato una sempre più capillare diffusione, tanto da assumere un ruolo primario, oltre che in merito alle attività svolte e agli obiettivi sociali perseguiti, anche sul piano occupazionale e dei servizi svolti. Purtroppo, nonostante il notevole impatto della spesa per i servizi sociali sulle finanze pubbliche, si registra, ancora oggi, l’assenza di una normativa specifica che disciplini in maniera organica l’affidamento di contratti pubblici ai soggetti operanti nel terzo settore.
L’intervento dell’ANAC mira a colmare tale lacuna normativa, prevedendo quanto alle modalità di erogazione dei servizi sociali, determinati strumenti tra cui l’Amministrazione può scegliere discrezionalmente, motivando la propria decisione, ovvero:
a) autorizzazione e accreditamento;
b) convenzione con le associazioni di volontariato di cui alla l. 266/91;
c) acquisto di servizi e prestazioni;
d) affidamento ai soggetti del terzo settore.
Ebbene, con riferimento alla procedura di affidamento della gestione dei servizi sociali agli organismi del terzo settore, questa deve svolgersi nel rispetto dei principi costituzionali di trasparenza, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), nonché del principio di libera concorrenza tra i privati, privilegiando le procedure di aggiudicazione ristrette e negoziate e il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Onde evitare scelte determinanti effetti distorsivi della concorrenza, particolare attenzione deve essere posta, poi, dalle stazioni appaltanti nell’individuazione dei requisiti di partecipazione e dei criteri di valutazione dell’offerta. A tal fine rileva senz’altro la circostanza di aver già attivato forme di collaborazione con la medesima amministrazione o con altri soggetti pubblici o privati operanti sul medesimo territorio, piuttosto che lo svolgimento di servizi analoghi sul territorio di riferimento.
I requisiti dell’erogatore del servizio
La Delibera, oltre ad analizzare le diverse procedure di assegnazione dei servizi ai soggetti no-profit, indica anche una serie di prescrizioni cui questi ultimi devono uniformarsi al fine di offrire adeguate garanzie alle amministrazioni aggiudicatrici.
Segnatamente, ai fini dell’affidamento dei servizi sociali, l’ANAC richiede ai soggetti del terzo settore:
- il possesso di requisiti di moralità;
- l’adozione della carta dei servizi[2];
- il rispetto delle prescrizioni del d.lgs. 231/2001[3].
Invero, il possesso di requisiti di “moralità professionale” è più volte enfatizzato dall’authority, che ne evidenzia la necessità anche per gli affidamenti in deroga al Codice dei contratti, indicando a titolo di riferimento i requisiti elencati dal non più vigente d.lgs. 163/2006, sostituito dal d.lgs. 50/201[4]6.
Le amministrazioni aggiudicatrici hanno, inoltre, la facoltà di richiedere requisiti minimi di idoneità tecnica ed economica, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Con riferimento alla responsabilità amministrativa degli enti, la Delibera in esame riporta al paragrafo 12.3 rubricato “Il rispetto delle prescrizioni del d.lgs. 231/2001” quanto segue: “Sempre nell’ottica di garantire l’affidabilità del soggetto erogatore e di assicurare che la prestazione affidata venga svolta nel rispetto della legalità, le stazioni appaltanti devono verificare l’osservanza, da parte degli organismi no-profit, delle disposizioni di cui al d.lgs. 231/2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della l. 29 settembre 2000, n. 300), applicabile agli stessi in ragione, sia del tenore letterale delle relative previsioni (rivolte agli enti forniti di personalità giuridica, alle associazioni anche prive di personalità giuridica e alle società private concessionarie di un pubblico servizio) sia della natura dei servizi erogati”.
Conclusioni
Pertanto, l’attrazione dei soggetti appartenenti al mondo del no-profit nel perimetro applicativo della disciplina della 231 – già sancita a più riprese dalla giurisprudenza – ha trovato confermata da parte dell’ANAC.
A parere dell’Autorità anticorruzione, il modello di organizzazione degli enti no-profit, deve prevedere:
- l’individuazione delle aree a maggior rischio di compimento di reati;
- idonee procedure per la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente nelle attività definite a maggior rischio di compimento di reati;
- l’adozione di modalità di gestione delle risorse economiche idonee ad impedire la commissione dei reati; – un appropriato sistema di trasmissione delle informazioni all’organismo di vigilanza;
- misure di tutela dei dipendenti che denunciano illeciti;
- l’introduzione di sanzioni per l’inosservanza dei modelli adottati.
Inoltre, devono procedere alla nomina di un organismo deputato alla vigilanza sul funzionamento e sull’osservanza del modello e all’aggiornamento dello stesso (cui attribuire autonomi poteri di iniziativa e di controllo), oltre a prevedere ed attuare adeguate forme di controllo sull’operato dell’organismo medesimo. Specificazione che appare superflua, in quanto l’esistenza dell’OdV ex art. 6, co. 1, lett. b), del d.lgs. 231/2001 è condizione indispensabile ai fini della stessa validità del modello adottato.
Allo stesso tempo, l’ANAC esorta anche le stazioni appaltanti “a verificare l’osservanza, da parte degli organismi no-profit, delle disposizioni di cui al d.lgs. 231/2001”[5].
Tale previsione, per le stazioni appaltanti potrebbe comportare una significativa riduzione di partecipazione alle gare per servizi sociali, dal momento che il numero di enti no-profit dotati di modello 231 è verosimilmente – almeno allo stato attuale – più che limitato. Potrebbe, dunque, discenderne ulteriormente una riduzione dei margini di offerta, con conseguenze sotto il profilo tecnico ed economico delle proposte.
Importante, poi, non dimenticare che, qualunque sia la natura dell’ente, la costruzione del modello è votata alla finalità di “esimente“.
Il modello è stato, infatti, introdotto dal d.lgs. 231/2001 proprio con l’intento di “schermare” l’ente in caso di commissione di uno dei reati-presupposto, consentendo in alcune ipotesi l’esenzione dalla responsabilità, evitando altresì la comminazione delle sanzioni (sia di tipo pecuniario che interdittivo), previste nel caso in cui si configuri una condotta illecita(art. 6, comma 1), o determinando, in altre circostanze, il cosiddetto “sollievo sanzionatorio”[6].
Costruire un modello adeguato alle prescrizioni del Decreto, significa pervenire alla definizione di un sistema di controllo al quale possa essere attribuita efficacia esimente in sede di valutazione giudiziale.
In conclusione, con la Delibera n. 32 del 20.01.2016 è stato introdotto, di fatto, l’obbligo a carico degli enti no profit affidatari di servizi sociali di adozione del modello di organizzazione e gestione previsto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Il reato di riferimento è, nel caso specifico, la corruzione ai danni della pubblica amministrazione senza escludere la possibile estensione ad altre fattispecie di illecito.
Infatti, sulla scorta di quanto finora analizzato, la richiesta dell’ANAC di dotarsi di un modello organizzativo ai sensi del D.Lgs. 231/2001 appare certamente comprensibile ed opportuna anche per gli organismi no-profit, soprattutto in considerazione della tipologia di rapporti che intercorrono con gli enti pubblici e delle peculiarità degli affidamenti dei servizi, che in molti casi possono anche derogare dalla disciplina ordinaria. Si tratta, in definitiva, di un importante intervento in direzione di una maggiore tutela della Pubbliche Amministrazioni, che mira a garantire l’affidabilità del soggetto erogatore dei servizi, oltre che la trasparenza e la legalità nello svolgimento delle prestazioni affidate.
Dott.ssa Laura Avantaggiato
Avv. Michele Bonsegna
[1] Cass., 21 luglio 2010, n. 28699, ove si afferma la responsabilità ex d.lgs. 231/2001 delle società a partecipazione pubblica quando svolgono attività economica.
[2] L’adozione della Carta dei Servizi da parte dell’ente rappresenta l’impegno assunto da questo nei confronti del soggetto accreditante e degli utenti. La predisposizione della carta dei servizi è elemento essenziale ai fini della valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, dal momento che il mancato rispetto di quanto in essa prescritto è fonte di responsabilità contrattuale. Non solo, la carta garantisce la qualità delle prestazioni, vincolando il soggetto erogatore al mantenimento degli standard predefiniti e consentendo al contempo all’utente di richiederne il rispetto. Nella carta sono infatti definiti i criteri per l’accesso ai servizi e le modalità di funzionamento dei medesimi, nonché le condizioni per facilitare agli utenti la valutazione del servizio ed attivare, se del caso, ricorsi, reclami e segnalazioni nei confronti dei responsabili della gestione dello stesso.
[3] ANAC, delibera n. 32/2016, pp. 35-37.
[4] In dettaglio, la delibera fa riferimento all’art. 38 del d.lgs. 163/2006 (Requisiti di ordine generale), i cui contenuti sono in linea di massima riproposti nell’art. 80 (Motivi di esclusione) del d.lgs. 50/2016, che elenca analiticamente tutti i motivi di esclusione di un operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto o concessione: condanne definitive, delitti, sussistenza di cause di decadenza/sospensione/divieto, violazioni di obblighi tributari e delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, pendenza di procedure concorsuali, illeciti professionali tali da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità dell’operatore; situazioni di conflitto di interesse; distorsioni della concorrenza; sanzioni interdittive.
[5] ANAC, delibera n. 32/2016, p. 37.
[6] Cfr. Cass. Pen., 23 giugno 2006, n. 32627.